News & Last Entries
Agenda
Processo Milano Comunicato Collettivo AURORA
Al Presidente della Seconda Corte d’Appello d’Assise di Milano
Siamo presenti ancora una volta nelle aule dei tribunali borghesi non per sostenere la nostra innocenza da ciò di cui veniamo accusati. Non c’è necessità di farlo perché ci siamo già rivendicati come “militanti per la costruzione del Partito Comunista Politico-Militare” e in quanto tali abbiamo rivendicato fin dal principio quello che la vostra giustizia di classe dominante considera una colpa, cioè lavorare per creare lo strumento con cui la classe operaia e il proletariato possono prendere il potere e porre fine al sistema capitalista, al barbaro sistema in cui sono costretti a vivere i lavoratori e le masse popolari.
Il fatto che la Corte di Cassazione abbia parzialmente annullato la sentenza di secondo grado non toglie nulla alla valenza strategica di quest’attacco repressivo che è appunto quello di impedire che le giuste rivendicazioni di classe si trasformino in lotta per il potere tramite la creazione dell’organizzazione rivoluzionaria combattente del proletariato. Questo ripetersi del processo registra solamente che nel condurre quest’attacco ci sono delle contraddizioni nel campo della magistratura, cosa che non ci interessa qui analizzare.
Siamo qui invece per ribadire, rivolti non alla magistratura dello Stato italiano, ma alla nostra classe, la classe operaia e il proletariato e alle sue avanguardie, la correttezza di alcune nostre tesi sulla base di tutto quello che sta accadendo sotto i colpi della crisi economica che sta sconvolgendo il mondo intero.
Una crisi che si è manifestata nel mondo finanziario ma che ha le sue origini nello stesso modo di produzione capitalista, essendo il primo indissolubilmente intrecciato e diretta emanazione del secondo. È questo intreccio che ha posto storicamente le basi dell’imperialismo, impedendo e posticipando l’esplodere della crisi strutturale del sistema capitalista. Oggi vediamo come, nonostante questo intreccio, la crisi sia esplosa in forza di quelle stessi leggi scoperte da Marx più di un secolo e mezzo fa e come essa faccia sprofondare nella miseria la vita di milioni e milioni di persone in tutto il mondo.
I 1700 suicidi di Atene degli ultimi due anni, le decine di suicidi nel nostro paese non sono che la più alta testimonianza del livello di disperazione a cui le masse popolari sono sottoposte sotto i colpi della crisi e delle ricette che la borghesia imperialista mette in campo per salvaguardare innanzitutto se stessa, i suoi profitti e il suo sistema. Per far fronte alla crisi i vari gruppi e istituzioni imperialisti americani ed europei non hanno esitato a soccorrere le banche stampando montagne di moneta e facendo esplodere i debiti pubblici. Così facendo hanno creato un nuovo allarme e per farlo cessare stanno imponendo immani misure di austerità che soffocano i lavoratori e le loro famiglie e che toccano anche gli strati inferiori della piccola borghesia.
Il caso della Grecia è solo la punta dell’iceberg; tutte le principali economie del mondo (Usa, Ue, Giappone) sono in preda agli stessi problemi legati all’esplosione dei debiti sovrani. E in tutti questi paesi le misure di austerità, accompagnate a spudorati sovvenzionamenti alle banche, non si contano ormai più.
L’incepparsi del mondo finanziario ha poi messo a nudo le contraddizioni del sistema produttivo e industriale in preda da decenni ad una crisi di sovrapproduzione di capitali che non si era ancora manifestata solo grazie alla montagna di asset, derivati, titoli, ecc. che permettevano di assorbire l’enorme produzione di profitti alla ricerca di valorizzazione.
Questo castello di carte, rappresentato dalla speculazione finanziaria, è ora crollato.
Quello che prima era nascosto e mistificato ora viene alla luce e mostra tutto il suo putridume; il modo di produzione capitalista fa vedere tutte le sue debolezze e la sua incompatibilità con il benessere dei lavoratori.
30 milioni di lavoratori sono stati espulsi dalla produzione nei paesi avanzati dall’inizio della crisi, portando a 200 milioni i lavoratori disoccupati. La salvaguardia dei profitti impone ai grandi gruppi industriali di ristrutturare profondamente per ottenere più elevate soglie di produttività ingigantendo e rinnovando gli impianti, imponendo megaopere infrastrutturali a danno dell’ambiente e comprimendo fortemente la forza lavoro nel suo numero e nei salari con l’obiettivo di produrre di più con meno operai e minori costi. Ciò significa che, in ogni caso, la disoccupazione verrà riassorbita solo in parte al termine delle ristrutturazioni, che la precarietà la farà da padrona e che, per chi rimane in produzione, si profila un vertiginoso aumento dello sfruttamento e lo smantellamento di ogni diritto conquistato.
Basta leggere le cronache di ciò che sta accadendo alla Fiat di Pomigliano dopo il rinnovo degli impianti e l’imposizione degli accordi capestro per rendersi conto di dove vogliono arrivare padroni: nemmeno la metà degli operai sono stati riassunti, praticamente è stato vietato il riassorbimento di quelli che si sono opposti agli accordi, fabbrica militarizzata, pause ridotte al lumicino, ipersfruttamento dovuto all’applicazione del fantomatico Ergo-Uas, impedita, per ora, ogni sorta di rivendicazione e di conflitto.
Nel nostro paese tutto questo avviene sotto il nome delle ricette di Marchionne e della discesa in campo del governo dei tecnocrati capeggiato da Monti, noto esponente d Goldman Sachs e della Commissione Europea. Essi, assieme al loro degno compare Draghi al vertice della Bce, sono gli esponenti italiani di quel mondo produttivo e finanziario responsabile della crisi in corso che non ha potuto e saputo impedire. E, sempre da costoro, stanno provenendo tutte le misure per sanare la crisi.
Queste misure i lavoratori le stanno conoscendo bene: depotenziamento dei Ccnl in favore degli accordi aziendali che annullano le conquiste storiche, aumentano lo sfruttamento e disgregano il conflitto, smantellamento del sistema pensionistico, tagli a tutto il sistema sociale (sanità, istruzione, ecc.), aumento delle tasse, devastazione del territorio tramite l’imposizione di mega-opere infrastrutturali, estensione della precarietà sia dei rapporti di lavoro sia della vita in generale con conseguente abbattimento di ogni pur minima prospettiva di miglioramento del tenore di vita.
A questo va aggiunta l’ultima manovra di riforma del mercato del lavoro della ministra Fornero che, senza stare qui a riassumerla, rappresenta senz’altro una delle peggiori batoste scagliate sulla testa di chi lavora.
Tutte le ipocrisie del governo Monti circa l’equità dei sacrifici, i privilegi da togliere, ecc. non servono ad altro che a nascondere che l’unico obiettivo di tutti gli enormi sacrifici imposti è, come sempre, nella società capitalista, il profitto degli imperialisti, dei grandi industriali e dell’alta finanza. È questo il vero privilegio; il privilegio di sfruttare sempre di più il lavoro altrui che loro chiamano “bene comune” o “interesse generale”. Infatti, mentre costoro stanno facendo sputare sangue ai lavoratori, anche nei momenti peggiori della crisi, hanno sempre trovato il modo di salvaguardare e accrescere le loro ricchezze e di conservare il loro posto di comando sull’intera società. A costoro vengono sacrificati i patrimoni delle famiglie e per i loro interessi si esige che il mercato del lavoro sia più flessibile, che ci si sacrifichi, che si accetti un maggiore sfruttamento, maggiore precarietà e che una fetta sempre più rilevante della popolazione venga cacciata nella povertà.
A questo servono le manovre del governo Monti, in linea a quelle dei suoi predecessori. L’unica novità consiste nel fatto che il governo Monti, non essendo eletto dai cittadini, ma imposto dall’alto da chi detiene le leve dell’economia e delle politiche imperialistiche, non deve rispondere nemmeno agli elettori ed ha quindi mano libera nel tutelare gli interessi dei capitalisti scaricando i costi della crisi sui lavoratori e sulle masse popolari.
Ma è sotto gli occhi di tutti che le misure che si sono prodigati ad imporre dall’inizio della crisi, da fine 2007 ad oggi, si sono rivelate fallimentari.
E l’immediato futuro non sarà certo migliore visto che la recessione è ripartita, la disoccupazione è in continua ascesa nella maggior parte dei paesi colpiti dalla crisi e sempre più stati sono sull’orlo del fallimento.
Sacrifici, guerre, summit tra potenti, manovre di austerità, fiscal compact e firewalls europei, manovre monetarie e finanziarie non sono finora riusciti a far fronte alla crisi.
Impongono tutto questo e, nonostante ciò, i risultati di risanamento da loro sperati non arrivano. E, ancor di più, sono lontani dal concepire che è lo stesso sistema capitalista ad essere l’origine della crisi e che la sua soluzione definitiva sta solo nel suo superamento. Così, si preparano ad imporre altri e, via via, sempre più pesanti sacrifici.
Insomma, il capitalismo, nella sua fase imperialista, non riesce tramite i suoi usuali e barbari sistemi ad uscire dalla crisi che esso stesso ha provocato, da una crisi che è insita nel suo stesso Dna. Il modo di produzione capitalista è cioè un sistema che ha fatto il suo tempo perché, soprattutto nelle formazioni economiche avanzate, ha ormai raggiunto un tale livello di accumulazione di capitali da non trovare più possibilità sufficienti per la loro valorizzazione ed è quindi destinato, in questa fase storica, ad una spirale di crisi e guerre.
L’avvitamento della crisi, con il suo riproporsi ciclico in forma sempre più acuta e il rafforzarsi della tendenza imperialistica sono due lati dello stesso processo. Lenin parlò dell’imperialismo come egemonia del capitale finanziario, come fase suprema e di putrefazione del capitalismo. Esso rappresenta lo sforzo, proseguito attraverso l’intreccio tra capitale finanziario e capitale industriale e l’esportazione di capitali, di far fronte alla crisi strutturale del capitalismo che subentra ad un certo livello di sviluppo dell’accumulazione; di far fronte all’insufficiente valorizzazione dei capitali attraverso l’affluenza di plusvalore addizionale proveniente dai paesi della periferia attraverso la conquista, la rapina e lo sfruttamento delle loro risorse e delle masse di lavoratori pagati una miseria di quei paesi.
A questo servono le varie guerre scatenate dalle potenze imperialiste più sviluppate, sotto la direzione USA, contro i popoli dell’Iraq, dell’Afghanistan, della Libia e quelle in preparazione contro quelli della Siria e dell’Iran. Perché, soprattutto nella crisi, anche la rapina e la competizione per il controllo delle risorse energetiche e dei mercati mondiali sono essenziali per perseguire l’obiettivo primario di garantire i profitti dei diversi gruppi della borghesia imperialista. In questo processo, oltre ad acuirsi la contraddizione tra imperialismo e nazioni oppresse, con lo sterminio di milioni di persone, aumentano anche i contrasti tra le vecchie potenze imperialiste e i nuovi imperialismi emergenti, Cina in particolare.
In questo contesto riteniamo che non sia affatto catastrofista affermare che nella crisi si vanno più rapidamente riunendo quelle stesse condizioni che hanno portato ai due precedenti conflitti mondiali. Le similitudini, ormai, hanno raggiunto livelli allarmanti.
Contro la via capitalista di affrontare la crisi, contro il fatto che si stanno scaricando i suoi effetti e i suoi costi sulla pelle dei lavoratori e delle masse popolari, si sta sviluppando una crescente resistenza composta dalle più svariate lotte in tutto il mondo. Quasi tutti i paesi imperialisti sono stati negli ultimi anni attraversati da un’ondata di proteste che, raccogliendo il vento delle rivolte arabe o spinte dalla pesantezza delle misure di austerità come in Grecia, è dilagata dappertutto.
Lotte condotte in mille modi e forme diverse, ma che tutte vanno appropriandosi di un nuovo protagonismo e di un nuovo livello di coscienza perché tutte trovano contrapposto il nemico comune e tutte trasudano incompatibilità con il modo capitalista di produrre e di organizzare la società.
Crediamo di non esagerare affermando che raramente come oggi si stia rendendo evidente il fatto che ogni lotta, ogni pure minima rivendicazione e, anche la semplice difesa di un qualche brandello di conquista ereditata dalle lotte passate, rimandano più o meno direttamente alla necessità di farla finita con il capitalismo come sistema dominante.
Questo concetto, questa nuova presa di coscienza trova sempre più spazio e sgorga quasi spontanea in tutti quei settori di classe impegnati a lottare direttamente contro i vari progetti e manovre che assumono valenza strategica per il capitalismo e che, proprio per questo, non si danno mediazioni di sorta. Risulta subito evidente a tutti coloro che lottano che quelli che vogliono il Tav sono gli stessi che vogliono eliminare i Ccnl, che hanno imposto gli accordi in Fiat, che stanno reprimendo chi si ribella, che impongono i tagli e i sacrifici, che, a livello europeo, decidono le misure di austerità che i governi greco, italiano, spagnolo, portoghese, ecc. impongono sui propri popoli, che hanno voluto prendere parte alla guerra di conquista in Libia, come alle altre “operazioni umanitarie” in Iraq e Afghanistan. Per questo ogni singola lotta va assumendo un significato che va al di là degli obiettivi parziali e particolari che persegue, sfociando in una critica al sistema capitalista in sé, anche se ancora parziale, spesso spontaneista ed empirica e molto volte distratta da teorie neoriformiste che inibiscono una critica più radicale e più profondamente scientifica. Ma pur sempre critica al sistema nel suo complesso per la ricerca di alternative e di altri modelli sociali. In base a questo si va anche sviluppando un reciproco riconoscimento tra i vari settori e classi in lotta; ognuno si riconosce nella lotta degli altri e, per dirla con i valsusini, “la lotta di uno è la lotta di tutti”. E non è certo un caso che, sempre più spesso, lotte condotte su obiettivi particolari divengano occasione, per migliaia di giovani, di esprimere un modo spontaneo e spesso violento tutta la loro ribellione alle imposizioni del capitale che li priva del loro futuro, ma soprattutto del loro presente e che, sempre più spesso, i tentativi di dividere i “buoni” dai “cattivi”, che nel passato hanno sempre funzionato nella logica del “divide et impera”, oggi abbiamo sempre meno successo.
Certo, questa è solamente una tendenza in corso di sviluppo lontana dal modificare i generali rapporti di forza che permangono tuttora in favore del nemico di classe. Molte questioni rimangono irrisolte e tra queste ci interessa qui affrontarne due che riteniamo fondamentali: il protagonismo della classe operaia e la questione delle forze soggettive della rivoluzione.
Ci interessa qui affrontarle non nella chiave della semplice difesa degli interessi di classe, ma nella prospettiva di riunire le forze politiche e sociali indispensabili a seppellire il sistema capitalista nel suo complesso. Questo non perché consideriamo inutile la semplice difesa degli interessi di classe, anzi, ma perché siamo convinti che in generale, ed oggi più che nel recente passato, tale difesa possa divenire reale solo trasformandosi e sviluppando l’attacco al sistema nel suo complesso. Al perseguimento di questo scopo riteniamo fondamentale il contributo della classe operaia, intesa come forza lavoro fissa, precaria e disoccupata che rappresenta quella parte di società direttamente e frontalmente contrapposta al capitale perché dal suo sfruttamento derivano i profitti che costituiscono l’essenza del modo capitalista di produrre. È in virtù di questo suo peculiare carattere che la classe operaia è la sola che possa riunire attorno alla sua lotta le altre classi e forze sociali in un fronte ampio per affossare il capitale e le sue istituzioni. Di questa sua potenzialità è ben cosciente anche la borghesia imperialista che sa bene che, a determinate condizioni, la classe operaia può divenire la principale forza del suo seppellimento.
Per questo, coniugando la repressione con il revisionismo e il riformismo, si è prodigata tanto per renderla inoffensiva, per estromettere dal suo interno ogni velleità politica, per confinarla nella sola lotta economica da condurre con le regole da essa stessa definite. Per questo ha lavorato fin dal secondo dopoguerra per cooptare e distruggere il Pci, per reprimere le organizzazioni rivoluzionarie combattenti degli anni ’70, per corrompere le organizzazioni sindacali fino a renderle succubi alle dinamiche imperanti dei mercati, del profitto, della competizione mondiale.
Se ha potuto far questo è perché aveva in mano gli strumenti della repressione e della corruzione usati abilmente per ottenere, in cambio delle briciole che cadevano dai suoi lussuosi banchetti, il disarmo ideologico e politico dei lavoratori e delle loro organizzazioni storiche, cosicché il suo dominio sull’intera società non venisse messo in discussione. Negli ultimi 20 anni, tutto ciò ha assunto, dagli accordi del luglio ’93, il nome di concertazione a cui si è affiancata un’incessante e attenta opera di attacco e repressione verso ogni pur minimo tentativo di ricomposizione delle fila della rivoluzione.
Ora, però, solo a causa della crisi, le cose vanno cambiando velocemente. Se, da una parte l’opera repressiva prosegue ed è facile prevedere che proseguirà incessante, dall’altra le briciole non cadono più nelle tasche dei lavoratori; gli spazi di mediazione si restringono notevolmente, la concertazione sopravvive a stento, gli strumenti per corrompere e dividere i lavoratori sono al lumicino.
Nonostante ciò, non si può nascondere che la classe operaia non stia reagendo ad un livello consono all’attacco che sta subendo. Certo, negli ultimi anni abbiamo assistito ad un certo protagonismo nella difesa dei posti di lavoro, con punte anche accentuate di lotta come nel caso dei lavoratori della Innse o della Fincantieri. E abbiamo visto la capacità di lotta contro lo sfruttamento degli immigrati nel meridione e dei lavoratori, immigrati e italiani assieme, delle cooperative della logistica e del commercio lombardo-emiliane.
Ma in generale la classe operaia non è riuscita a contrastare efficacemente il generale smantellamento delle sue conquiste, la prepotente erosione dei posti di lavoro e del salario, le varie nefaste conseguenze delle ricette Marchionne e del governo, tanto che Monti ha avuto modo di vantarsi con tutti i suoi simili al mondo, sulla disponibilità ai sacrifici del popolo italiano che non sta mettendo in discussione il suo operato e che, addirittura, riguardo alla pesantissima manovra sulle pensioni, ha fatto 3 sole ore di sciopero.
Di fronte a questa situazione è facile che le forze rivoluzionarie possano cadere nello sconforto, che rivolgano la loro attenzione altrove, che si limitino ad imprecare contro la presunta arretratezza dei lavoratori, che si dissolvano all’inseguimento di scenari di lotta che esprimono spontaneamente, ma senza continuità progettuale, elementi di rottura con l’ordine borghese, che si abbandonino cioè alla spontaneità delle masse senza trovare motivi per costituirsi in avanguardia politica.
Senza presunzione di essere esaustivi, riteniamo utile uno sforzo per comprendere almeno le questioni centrali riguardanti lo stato di relativa debolezza della classe operaia al fine di individuare quali debbano essere i compiti dei comunisti in questa fase.
Innanzitutto, affermare che nella crisi i margini materiali delle politiche riformiste si vanno drasticamente riducendo, non significa affatto dire che il riformismo sia finito, anzi. Esso detiene tuttora, e lotterà a morte per detenerli, tutti i principali centri di mobilitazione dei lavoratori. Esso è tutto teso ad imbrigliare le lotte nel quadro delle compatibilità; ai rapporti di forza e al conflitto di classe spesso sostituisce l’illusione che sia possibile difendersi nei tribunali borghesi, implora ai padroni il rispetto delle regole della concertazione che è ormai divenuta carta straccia, chiede, esso stesso, ai padroni di investire di più ed essere più competitivi chinando così la testa di fronte alle leggi del mercato creando l’illusione che questa competitività possa dare dei benefici ai lavoratori.
Tutto ciò sulla base del falso presupposto che il capitalismo sia un sistema assoluto ed immutabile, che non ce ne possa essere un altro di migliore, che l’unica possibilità stia nel migliorarlo o nel ridurne il più possibile i danni. Grazie a tutte queste illusioni e alla capacità di controllo delle organizzazioni riformiste, i padroni trovano la strada sgombra da ostacoli per condurre la loro opera di sterminio di diritti, di conquiste, di posti di lavoro, di salario e delle condizioni di vita di milioni di persone.
Tutte queste illusioni non sono però inamovibili e vanno a poco a poco crollando perché, proprio nella crisi, si rivela che il capitalismo non è affatto un sistema assoluto e immutabile, ma solamente storico, che necessita di essere superato e che nel suo tramonto, assieme al suo putridume, mostra tutta la sua recrudescenza verso la classe operaia, il proletariato e i popoli di tutto il mondo.
Un altro fattore di debolezza della classe operaia è dato dalla pesantezza dell’attacco in corso. Privata della forza, politica o sindacale che sia, che la possa unificare in un fronte compatto, di fronte alla chiusura delle fabbriche è pressoché impossibile contrapporre una difesa efficace dei posti di lavoro; davanti al quadro compatto della borghesia che va da Confindustria, al Governo, a tutti i principali partiti borghesi (Pd, Pdl, Udc), tutti d’accordo a scaricare i costi della crisi su di essa, risulta particolarmente difficoltoso difendersi sulla base della lotta economica fabbrica per fabbrica, sulla base della semplice lotta sindacale, per quanto intransigente essa possa essere.
In molti casi prevale la rassegnazione e lo sconforto, fino ad arrivare ad eclatanti casi di disperazione cui si assiste sempre più spesso e, quindi, l’abbandono alle sempre più vane illusioni riformiste anche se non ci si crede più. Esistono certamente molti episodi di controtendenza a questo stato d’animo, come quelli citati prima. Una controtendenza destinata a trasformarsi in tendenza con il procedere della crisi che imporrà di trasformare rassegnazione e sconforto in lotta per la sopravvivenza. Ma attualmente siamo ben al di là dal modificare il quadro generale dei rapporti di forza.
È una situazione anormale questa? I lavoratori sono così stupidi da non reagire efficacemente, da continuare a farsi illudere e imbrogliare?
Noi riteniamo che non sia così. Pensiamo, invece, che oggi lo scontro di classe si stia dando ad un livello tale che la semplice lotta economica e sindacale, pur necessaria, risulti del tutto insufficiente a far fronte alla situazione. Ma finché la classe operaia non vede altra via, altri strumenti, altre prospettive è sempre ad essa che può ricorrere.
Altrimenti non può essere. Qui sta il fattore principale di debolezza e cioè il fatto che questa via non si vede anche se la classe va acquisendo, sulla base della sua propria esperienza, coscienza della sua necessità. Percepisce cioè che il problema non sta solamente nella lotta rivendicativa e sindacale, ma che è il sistema nella sua generalità che non va.
Ma da sola la classe operaia non può sviluppare oltre un certo grado questo livello di coscienza. Soprattutto non può trasformare questa coscienza, questa spontanea propensione al cambiamento, negli strumenti politici e organizzativi adeguati. Per fare questo serve la discesa in campo delle forze comuniste rivoluzionarie, del fattore soggettivo dello scontro.
Qui, e non tra i lavoratori, sta l’arretratezza e l’incapacità di far fronte allo scontro di classe. I lavoratori sono in grado di sopportare per lungo tempo le peggiori bastonate; l’hanno fatto ripetutamente nel corso della loro storia.
Ma divengono la più forte e risoluta classe rivoluzionaria non appena si presenta l’occasione credibile, non appena si apre davanti a loro la strada e il modo della loro emancipazione, non appena trovano chi spieghi loro, a parole e con i fatti, perché si lotta e come lo si deve fare, non appena trovano chi dia senso compiuto alla loro spontanea aspirazione a rovesciare la situazione generale. Il che non può darsi se non riorganizzando le fila della rivoluzione per condurre la lotta per la presa del potere, per strapparlo dalle mani della borghesia imperialista e consegnarlo nelle mani dei lavoratori.
Su questo, e nessun altro obiettivo, devono organizzarsi i comunisti, perché questo è oggettivamente richiesto dai lavoratori e dalla situazione generale. I lavoratori non chiedono di capire come condurre la lotta economica, pur nelle difficoltà, quando lo vogliono, lo sanno già fare. Necessitano invece di prospettiva politica e di trovare chi sappia interpretare le loro lotte e organizzare il loro protagonismo per porre fine allo sfruttamento del sistema capitalista.
Il che, in termini generali, significa saper lavorare, nel contesto di generale difensiva in cui oggi la classe si trova, per riproporre un’offensiva al capitale articolata in tutti i suoi termini: teorici, politici, ideologici, organizzativi e militari, poiché l’offensiva borghese, su ognuno di questi terreni è penetrata a fondo nella classe e spesso si tratta di riprendere anche i più elementari concetti rivoluzionari per ricostruire una visione complessiva dei problemi basata sulla concezione del mondo del materialismo dialettico.
Una visione complessiva e funzionale a saper porre la questione della lotta per il potere in stretto legame dialettico con l’esperienza concreta della classe, con le sue lotte e le sue aspirazioni e in base a questo sviluppare quell’accumulo di forze rivoluzionarie necessario alla costruzione dell’organizzazione che in prospettiva dovrà darsi nella forma del Partito Comunista forgiato per sostenere e vincere lo scontro di potere con la borghesia imperialista su ognuno dei termini sopra evidenziati.
Riteniamo che, in questa fase, l’offensiva di cui parliamo debba assumere principalmente i carattere politico della propaganda armata e che, nel contempo, debba sapersi articolare in tutte le molteplici forme idonee a promuovere la mobilitazione politica della classe, sviluppando il lavoro di massa come legame concreto dell’organizzazione rivoluzionaria con le masse; articolando, per come lo permettono le condizioni oggettive e il livello dello scontro, la propaganda e la diffusione della linea rivoluzionaria e delle sue parole d’ordine generali e particolari; promuovendo l’organizzazione politica delle masse ai vari livelli e dirigendo il lavoro dei comunisti al loro interno.
In questo quadro riveste primaria importanza lo sviluppo dell’azione offensiva vera e propria, come espressione necessaria del compito di agire da partito che hanno i comunisti. Il suo sviluppo nella pratica è la concreta costruzione e sviluppo del partito nel fuoco della lotta per il potere. Il che significa che il partito si può costruire solo combattendo e in nessun altro modo.
È nello sviluppo dell’azione offensiva, nella dinamica dell’attacco che si condensa e sviluppa la dialettica tra accumulo e conservazione delle nostre forze e dispersione e distruzione delle forze nemiche. Una dialettica tra due aspetti che prevede che l’uno non possa evolvere oltre un certo grado senza modificare lo sviluppo dell’altro. Come in ogni contraddizione dialettica, tra questi due poli esiste un rapporto di identità-opposizione: il movimento di uno dipende e influenza il movimento dell’altro e viceversa; i due movimenti sono opposti. Il che ci porta a dire che i due poli sono considerati in un quadro d’assieme e non indipendentemente l’uno dall’altro.
Ma, al contempo, va anche definito quale debba essere, fase per fase, il polo principale di questa contraddizione. In particolare, se sia per i comunisti principale, in questa fase, l’accumulo e la conservazione delle forze o la dispersione e distruzione di quelle nemiche.
Stante quanto detto finora, consideriamo principale il primo aspetto.
Per quanto riguarda i contenuti riteniamo che l’azione offensiva debba svilupparsi principalmente sulla contraddizione principale interna ai paesi imperialisti che è quella che contrappone le forze del capitale alle forze del lavoro. È sulla contraddizione capitale-lavoro che la borghesia imperialista reimposta di continuo il suo dominio e, sotto i colpi della crisi, questa contraddizione diventa sempre più forte e tende ad assumere caratteristiche antagoniste.
È solo agendo su questa contraddizione inoltre che le forze rivoluzionarie possono contendere ai riformisti l’influenza sulla classe dando prospettiva politica alla lotta in difesa dei suoi interessi.
Ma sempre perseguendo l’obiettivo dell’accumulo delle forze e della costruzione dell’organizzazione rivoluzionaria va rifuggita la concezione di concepire l’azione offensiva come fine a se stessa o come semplice supporto alle lotte o per “dare forza ad esse”. L’azione offensiva, ripetiamo, deve sempre saper porre al centro la questione della presa del potere come obiettivo finale strategico e non creare palliativi a ciò che le masse “dovrebbero fare ma non fanno”o altre similari deviazioni.
Per ciò che riguarda quanto affermato sulla necessità impellente della ricostruzione dell’organizzazione rivoluzionaria vogliamo qui citare le parole di Antonio Gramsci, fra i più grandi dirigenti rivoluzionari che il movimento comunista del nostro paese abbia consegnato alla storia: “Una classe che si è una volta risvegliata dalla schiavitù non può rinunciare a combattere per la sua redenzione .(…). Ma per questo occorre che un’organizzazione di combattimento sia creata, alla quale gli elementi migliori della classe lavoratrice aderiscano con entusiasmo e convinzione, attorno alla quale le grandi masse si stringano fiduciose e sicure. È necessaria un’organizzazione nella quale prende carne e figura una volontà chiara di lotta, di applicazione di tutti i mezzi che dalla lotta sono richiesti, senza i quali nessuna vittoria totale mai ci sarà data. Un’organizzazione che sia rivoluzionaria non solo nelle parole e nelle aspirazioni generiche, ma nella struttura sua, nel suo modo di lavorare, nei suoi fini immediati e lontani. Un’organizzazione il cui proposito di riscossa e di liberazione delle masse diventi qualcosa di concreto e definito, diventi capacità di lavoro politico ordinato, metodico, sicuro, capacità non solo di conquiste immediate e parziali, ma di difesa di ogni conquista realizzata e di passaggio a conquiste sempre più alte e a quella che tutte le deve garantire: la conquista del potere, la distruzione dello Stato dei borghesi e dei parassiti, la sostituzione ad esso di uno Stato di contadini e operai”. (Stato Operaio, 28 agosto 1924)
Concludendo, per quel poco che ci compete nella qualità di prigionieri, non possiamo che cogliere anche quest’occasione per rinnovare il nostro appello a tutti i comunisti, alle forze rivoluzionarie e a tutte le avanguardie coscienti del nostro paese affinché ci si organizzi e si diano obiettivi, contenuti e forme rivoluzionari alla crescente presa di coscienza che la classe sta assumendo circa la necessità di porre fine al sistema capitalista.
O si riesce a riprendere in mano quel filo rosso che dal biennio rosso, alla Resistenza al nazifascismo, agli anni ’70, ad oggi ha posto la questione dell’abbattimento del capitalismo per l’instaurazione della società socialista, della società senza classi e senza sfruttamento, o l’imperialismo, sulla miseria e sulle macerie che sta producendo oggi, ricostruirà un dominio ancora più barbaro domani.
CONTRO LA CRISI DEL CAPITALISMO, PORRE CONCRETAMENTE LA QUESTIONE DELLA NECESSITA’ DEL SUO ABBATTIMENTO TRAMITE LA PRESA DEL POTERE DA PARTE DELLA CLASSE OPERAIA E DEL PROLETARIATO !!
ORGANIZZARE LE FORZE DELLA RIVOLUZIONE NELLA PROSPETTIVA DELLA COSTRUZIONE DEL PARTITO COMUNISTA NEGLI ADEGUATI TERMINI TEORICI, IDEOLOGICI, POLITICI E MILITARI !!
PROMUOVERE AZIONI OFFENSIVE CONTRO IL CAPITALE COME PROPAGANDA ARMATA PER IL COMUNISMO !!
MORTE ALL’IMPERIALISMO, LIBERTA’ AI POPOLI !!
O COMUNISMO, O BARBARIE !!
Collettivo Comunisti Prigionieri Aurora
Bortolato Davide
Latino Claudio
Toschi Massimiliano
Aprile/Maggio 2012
back