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La corte d’appello di Perugia si pronuncia domani
La corte d’appello di Perugia si pronuncia domani: aprirà il “processo alle torture”?
Siamo arrivati: domani, 18 giugno 2013, si terrà la prima udienza in
corte d’appello di Perugia, che dovrà pronunciarsi sulla legittimità
delle nuove prove presentate per la richiesta di revisione della
condanna per calunnia pronunciata contro Enrico Triaca, dopo la
denuncia delle torture subite nel 1978.
Una tappa importantissima quindi quella di domani, perchè se la corte
accoglierà l’istanza presentata dagli avvocati di Triaca, si aprirà
un dibattimento che vedrà per la prima volta comparire il “mastro
torturatore” Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, insieme ad
altri testimoni (colleghi e non di De Tormentis, ex funzionario
Ucigos) per rispondere di quelle sedute di tortura. Due anni di
carcere dovette scontare per aver denunciato i suoi torturatori: ed è
quello che vogliamo cancellare dalla storia.
- Per informazioni sulla figura di De Tormentis leggi:
*Chi è De Tormentis?
* Il segreto di Pulcinella sull’identità del torturatore
- Per informazioni sulle tecniche di tortura usate contro i militanti
della lotta armata, leggi:
* Ecco come mi torturò De Tormentis
* Il pene della Repubblica
* Le torture su Sandro Padula
- La tortura sulle donne, quel pizzico in più di sadismo a sfondo
sessuale:
* Le torture su Paola Maturi e Emanuela Frascella
* Cercando Dozier in vagina
* Chi è Oscar Fioriolli
Dagli anni 70 a Bolzaneto, la continuità trentennale d’apparati,
metodi e in certi casi anche di uomini nel ricorso alla tortura di
Paolo Persichetti
«Ciò che qualifica la tortura – scrive Patrizio Gonnella in, La
tortura in Italia. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica,
DeriveApprodi – non è la crudeltà oggettiva del torturatore, ma lo
scopo della violenza». Una violenza che può avere due obiettivi: uno
giudiziario ed uno politico-simbolico. Nel primo caso si tratta di
estorcere informazioni da utilizzare per lo sviluppo successivo delle
indagini o da impiegare in sede processuale come dichiarazioni
accusatorie; nel secondo il fine è quello di esaltare il potere
punitivo dello Stato. I due scopi spesso si sovrappongono: la tortura
giudiziaria contiene sempre quella punitiva, mentre la tortura
punitiva non sempre contiene la ricerca d’informazioni. Le torture
praticate contro i militanti rivoluzionari accusati di appartenere a
gruppi armati tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 erano un
classico modello di tortura investigativa. Operate dalle forze di
polizia, contenevano entrambi gli obiettivi: estorcere informazioni e
disintegrare l’identità politico-personale del militante. La
deprivazione sensoriale assoluta, introdotta negli anni 90 attraverso
l’isolamento detentivo previsto con il regime carcerario del 41 bis,
è invece la forma più avanzata di tortura giudiziaria. Congeniata per
sostituire la tortura investigativa, ha rappresentato una ulteriore
tappa del processo di maturazione dell’emergenza italiana che ha
visto la progressiva giudiziarizzazione delle forme di stato di
eccezione, non più controllate dall’esecutivo ma dalla magistratura.
I pestaggi che avvengono nelle carceri o nelle camere di sicurezza
delle forze di polizia appartengono invece al genere della tortura
punitiva, ispirata dal sopravanzare di visioni etico-morali dello
Stato: correggere comportamenti ritenuti fuori norma riaffermando la
gerarchia del comando. Così è avvenuto nel carcere di Asti tra il
2004 e il 2005, dove una sentenza della magistratura ha registrato le
violenze imposte ai detenuti per ribadire e legittimare i rapporti di
potere all’interno dell’istituto di pena. Una situazione analoga si è
verificata nella tragica vicenda che ha portato alla morte di Stefano
Cucchi, anche se in questo caso sussistono fondati sospetti che la
violenza punitiva ricevuta nelle camere di sicurezza del tribunale,
gestite dalla polizia penitenziaria, sia stata preceduta da violenze
subite nella fase investigativa prima dell’ingresso in carcere. In
linea generale le violenze poliziesche hanno un carattere «informe»,
non ha caso Walter Benjamin ne coglieva l’aspetto «spettrale,
inafferrabile e diffuso in ogni dove nella vita degli Stati
civilizzati», al punto da costituire una delle tipicità proprie
dell’antropologia statuale. Queste violenze variano d’intensità,
d’episodicità ed estensione con il mutare dei rapporti sociali e il
modificarsi della costituzione materiale di un Paese. Ci sono poi
momenti storici in cui questa violenza si condensa, assumendo una
forma sistematica che si avvale dell’azione d’apparati specializzati.
Quella che è una caratteristica permanente degli Stati dittatoriali
denota anche il funzionamento delle cosiddette democrazie quando
entrano in situazioni d’eccezione. Nell’Italia repubblicana è
avvenuto almeno due volte: nel 1982, quando il governo presieduto dal
repubblicano Spadolini diede il via libera all’impiego della tortura
per contrastare l’azione delle formazioni della sinistra armata e nel
2001, durante le giornate del G8 genovese. Se nel primo caso si è
fatto ampio ricorso alla tortura investigativa e ad un inasprimento
del regime carcerario speciale, già in corso da tempo, con una
estensione dell’articolo 90 e la sperimentazione di quel che sarà poi
il regime del 41 bis, con i pestaggi dei manifestanti, il massacro
all’interno della scuola Diaz e le sevizie praticate nella caserma di
Bolzaneto durante il G8 genovese si è dato vita ad una gigantesca
operazione di tortura punitiva e intimidatoria nei confronti di una
intera generazione. In entrambe le circostanze vi è stato un input
centrale dell’esecutivo, la presenza di una decisione politica, la
creazione di un apparato preposto alle torture e l’individuazione di
luoghi appositi, di fattoextra jure, oltre all’atteggiamento
connivente delle procure. Se nel 1982 – fatta eccezione per un solo
caso – queste insabbiarono tutte le denunce, nel 2001 hanno
facilitato la riuscita del dispositivo Bolzaneto, come dimostra il
provvedimento fotocopia predisposto prima dei fermi in vista delle
retate di massa. Adottato per ciascuna delle persone arrestate,
prevedeva in palese contrasto con la legge il divieto di incontrare
gli avvocati. Un modo per garantire l’impenetrabilità dei luoghi dove
avvenivano le sevizie che restarono così protetti da occhi e orecchie
indiscrete per diversi giorni. Nonostante tanta familiarità con la
storia del nostro Paese, la tortura non è un reato previsto dal
codice penale e ciò in aperta violazione degli impegni internazionali
assunti dall’Italia, l’ultimo nel 1984. Se la giuridicità ha un
senso, il suo divieto andrebbe integrato nella costituzione al pari
del rifiuto della pena di morte. La sua condanna, infatti, attiene
alla sfera delle norme fondatrici, alla concezione dei rapporti
sociali, ai limiti da imporre alla sfera statale. Non è una semplice
questione di legalità, la cui asticella può essere innalzata o
abbassata a seconda delle circostanze storiche. In ogni caso
introdurre questo capo d’imputazione ha senso solo se prefigurato
come “reato proprio”. «La tortura – spiega Eligio Resta – è crimine
di Stato, perpetrato odiosamente da funzionari pubblici: vive
all’ombra dello Stato», come ha sancito la Convenzione Onu del 1984.
Nella scorsa legislatura, invece, il Parlamento italiano aveva
elaborato una bozza che qualificava la tortura come reato semplice,
un espediente che lungi dal limitare l’uso abusivo della forza
statale ne potenziava ulteriormente l’arsenale repressivo alimentando
il senso d’impunità profondo dei suoi funzionari. Ancora nel marzo
del 2012, l’allora sottosegretario agli Interni, prefetto Carlo De
Stefano, rispondendo ad una interpellanza parlamentare della deputata
radicale Rita Bernardini era riuscito ad affermare che almeno fino al
1984 in alcuni trattati internazionali sottoscritti anche dall’Italia
erano presenti «limitazioni» di «non di poco conto, (morale e in caso
di ordine pubblico e di tutela del benessere generale di una società
democratica)», al divieto di fare ricorso all’uso della tortura. Un
modo per mettere le mani avanti e richiamare una inesistente
protezione giuridica alle torture praticate in Italia fino a quel
momento. D’altronde fu lo stesso Presidente della Repubblica Sandro
Pertini che nel 1982, per rimarcare la distanza che avrebbe separato
l’Italia dalla feroce repressione che i generali golpisti stavano
praticando in Argentina, affermò: «In Italia abbiamo sconfitto il
terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi». Di lui, ebbe a
dire una volta lo storico dirigente della sinistra socialista
Riccardo Lombardi, «ha un coraggio da leone e un cervello da
gallina». In Italia le torture c’erano, anche se in quei primi mesi
del 1982 non vennero inferte negli spogliatoi degli stadi ma in un
villino, un residence tra Cisano e Bardolino, vicino al lago di
Garda, di proprietà del parente di un poliziotto (lo ha rivelato al
quotidiano L’Arena l’ex ispettore capo della Digos di Verona,
Giordano Fainelli e lo ha confermato anche Salvatore Genova, allora
commissario Digos). Si torturava anche all’ultimo piano della
questura di Verona, requisita dalla struttura speciale coordinata da
Umberto Improta, diretta dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De
Francisci su mandato del capo della Polizia Giovanni Coronas che
rispondeva al ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Sulle gesta
realizzate da questo apparato parallelo sono emersi negli ultimi
tempi fatti nuovi, circostanze, testimonianze, ammissioni. Il
prossimo 18 giugno la corte d’appello di Perugia si riunirà per
decidere se riaprire uno dei pochi processi in cui l’imputato
denunciò di avere subito torture. Il seviziatore di Enrico Triaca,
conosciuto con lo pseudonimo di professor De Tormentis, ha ammesso in
un libro di avergli praticato il waterboarding nel maggio del 1978,
in quello che fu un assaggio di quanto avvenne quattro anni dopo. Il
suo nome è Nicola Ciocia, oggi ex questore in pensione, ieri
funzionario dell’Ucigos. Cosa farà la magistratura? Vorrà ribadire
ancora una volta che l’Italia ha sconfitto il terrorismo nelle aule
di giustizia e non negli stadi?